sabato 13 settembre 2014

Da Caiazzo a Gornja Bistra


Da Caiazzo a Gornja Bistra

Tutto è cominciato nel 1999 con le esperienze di Sarno,  
con il censimento dei profughi e sopravvissuti della guerra in Bosnia
e con il primo campo di lavoro e condivisione presso l’ospedale di  Gornja Bistra - Zagabria


La guerra nei Balcani

A quasi un decennio dalla morte di Tito avvenuta nel 1980, la forza tirannica che aveva tenuto unita la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia che impose la “Fratellanza e l’Unità” cedette il passo alle antiche questioni etniche e religiose che in questa parte di mondo erano state sottoposte ad un forzato silenzio.
Dopo circa sei anni di relativa quiete, garantita sicuramente da una certa stabilità economica, lo scoppio dello scandalo politico finanziario dell’Agrokomerc , la più importante impresa bosniaca e l’ascesa di Slobodan Milošević, divenuto presidente della Repubblica Socialista di Serbia nel novembre del 1987, le antiche divisioni iniziarono a tornare vorticosamente alla ribalta.
Il Memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze pubblicato nel 1986 da intellettuali serbi poneva le basi di un neo nazionalismo concentrato sull’idea della "Grande Serbia".
Proprio il teorema nazionalista di fondo secondo la quale  “la Serbia è la dove c’è un Serbo” contribuiva in tal periodo ad alimentare contrapposti ideali di nazionalismo secessionista da parte delle Federate.
Difatti nel 1989 in Croatia si impose l’Unione Democratica Croata, partito di centro-destra  e dichiaratamente anti comunista, ispirato e riferito alle  idee scioviniste  e alle personalità di Ante Pavelić e del generale Tito Franjo Tuđman che guidò poi la nazione durante lo scoppio della guerra.
Alle rivendicazioni croate face eco la "Primavera slovena" ed anche in Kosovo, a prevalenza albanese, si spingeva per una immediata indipendenza.
Nel Montenegro fu eletto invece il giovane filo-serbo Momir Bulatović e la vecchia classe dirigente taoista fu letteralmente spazzata via.
Tali accadimenti stavano trascinando con esponenziale velocità la Federazione Jugoslava  ad un  ormai prossimo ed inevitabile scontro armato che si tramutò poi nella più violenta e sanguinosa guerra europea dopo la Seconda Guerra Mondiale e che proprio  tra il 1991 ed il 1995 ha insanguinato i territori della ex Jugoslavia causandone la dissoluzione.
Genocidi, stupri di massa, esecuzioni sommarie di militari e civili, rappresaglie e pulizia etnica sono stati perpetrati e a loro volta subiti da tutte le etnie in campo: croati e bosniaci a prevalenza cattolica, bosniaci a prevalenza musulmana e serbi ortodossi concentrati per lo più nelle zone rurali della Bosnia.
La furia della guerra oltre ad aver portato distruzione e morte ha radicato nei sopravvissuti radicato la rassegnazione all’odio tra le etnie presenti in quella terra così lontana eppure così vicina.




Non solo scontri tra i diversi eserciti ma anche uno spaventoso numero di stupri fino alla pulizia etnica soprattutto a danno della componente musulmana hanno macchiato di sangue una terra incantevole, costellata da migliaia di colline verdi da cui spuntavano borghi e cittadine incantevoli,  spesso caratterizzate e rese uniche proprio dall’incontro delle diverse culture lì presenti, allietate da corsi d’acqua, laghi e foreste a perdita d’occhio.
Già dal 1993  don Ermanno D’Onofrio era attivo nei territori della Croatia che aveva di recente raggiunto la propria indipendenza da Belgrado dopo la guerra di secessione e nella Bosnia Herzegovina, dove in quel tempo la guerra causava altre vittime ed altro terrore.




Tra i sopravvissuti, rifugiati e sfollati ammassati in campi profughi allestiti prevalentemente nei fabbricati a vocazione recettizia, ubicati in larga parte nelle zone di mare come Baska Voda, il giovane don Ermanno tentava di portare un raggio di luce in un inverno dell’anima che sembrava non finire mai.
Nella sua opera “Tempi di Bosnia”,  diario testimonianza dove racconta attraverso le esperienze dei sopravvissuti gli orrori della guerra e l’assistenza ed il rimpatrio dei profughi, Don Ermanno ci apre le porte ad un mondo alternato da miseria umana e da speranza, da paura e da coraggio, dove alla fine la forza di amare si sovrappone all’odio cieco attraverso un percorso di fede solo scossa ma mai sopraffatta da tanta violenza.


  


Anzi, proprio la sofferenza finisce per fortificare la fede ed “Amare Dio Amore” ha rappresentato per migliaia di persone l’unica ancora di salvezza.
Nei futuri progetti di lavoro e condivisione, don Ermanno non solo ha richiamato alla vita le vittime della guerra, siano stati essi Cattolici  Ortodossi  o Musulmani, ma ha anche riportato luce nei cuori dei tanti volontari che grazie a lui hanno riscoperto i valori essenziali dell’esistenza.



Sarno,  8 – 18  Agosto  1999
 I campo di lavoro e condivisione in Episcopio di Sarno (SA)


Così dopo aver letto le testimonianze delle esperienze umanitarie maturate nella ex Jugoslavia martoriata dalla guerra, Giovanni Mastroianni, con gli amici Ciro Mastroianni e Peppe Fiore, tutti provenienti dalla cittadina di Caiazzo (CE), vennero condotti dallo stesso don Ermanno, allora fondatore ed ispiratore dell’associazione “Insieme per gli Altri” (1996) alla partecipazione del primo campo estivo di lavoro e condivisione in Sarno (1999), dove nella frazione di Episcopio, distrutta dall’alluvione del maggio 1998, si tentava di riportare speranza e calore umano.
Decine di morti e tantissimi feriti, case letteralmente spazzate via e sopravvissuti piegati dalla disperazione causata da un mare di fango che d’improvviso si era abbattuto sulla città salernitana con una furia improvvisa fu il quadro desolante apertosi agli occhi dei volontari.
Nei racconti dei tanti testimoni di quel disastro, alla disperazione per le vittime e per gli enormi  danni subiti senza un’apparente motivazione, si sovrapponevano  tante testimonianze di amore e solidarietà, come quella del padre del ragazzo morto nel tentativo di strappare al fiume di fango e detriti i suoi cari, ricordato da un volto rigato di lacrime e commozione che sembrava a stento poter essere contenuto nei lineamenti divenuti duri come il marmo.
L’esperienza maturata segnò la futura formazione dei partecipanti che di lì in poi furono letteralmente rapiti dalla straripante e coinvolgente azione di humanitas che permeava l’operato di don Ermanno. La Fede e la Parola di Dio si declinavano in gesti concreti e la tanta riconoscenza ricevuta dai giovani volontari non poteva essere minimamente paragonata all’impegno da loro profuso.



Il caldo afoso di quella estate non fermava i piccoli bimbi di Episcopio, sempre desiderosi di giocare, di divertirsi, di lasciarsi alle spalle quell’evento spaventoso.



I sorrisi contagiosi dei bimbi di Sarno crebbero di numero di giorno in giorno ed a fatica i volontari riuscivano a contenerli ed organizzarli nella varie attività.




Superare l’iniziale diffidenza della popolazione non fu facile  poiché maturata in seno ad una devastazione psico fisica che accentuava la chiusura verso il prossimo ma, una volta oltrepassato tale primo ostacolo, l’affetto maturato attraverso la condivisione della sofferenza ed il lavoro profuso per una prima ricostruzione dei luoghi devastati dalla valanga di fango, hanno saldato un legame che tutt’oggi si mantiene integro e che vede proprio quei bimbi e ragazzi di Episcopio, ormai adulti, attivi come volontari della “Fondazione il Giardino delle Rose Blu”  nei vari progetti di solidarietà in Italia e all’estero.

Agosto – Settembre 1999: in viaggio verso la Bosnia devastata dalla guerra

Dopo l’esperienza di Sarno, i cugini don Ermanno D’Onofrio e Giovanni Mastroianni, verso la fine di quello stesso mese di agosto dell’anno 1999, partirono da Frosinone alla volta della Bosnia Herzegovina per una ricognizione sulle condizioni dei profughi ritornati nelle loro abitazioni o ancora ammassati presso i campi accoglienza.
Molti erano ancora presenti nei campi profughi di Baska Voda, cittadina situata nel centro sud della costa Croata , dal mare cristallino, raggiunta  a bordo di un traghetto semi vuoto salpato da  Ancona la sera precedente ed approdato nel primo mattino nel porto di Spalato.
Interi nuclei familiari, composti in alcuni casi anche da dieci e più persone, vivevano in piccoli monolocali ricavati da vecchie strutture recettizie che sembravano sull’orlo di scoppiare.
Eppure, in condizioni umane inconcepibili per chi proveniva dalla vicinissima Italia, tutti quelli che incrociavano don Ermanno, bambini , anziani, uomini e donne,  si lasciavano andare in abbracci commoventi dove un silenzio intenso veniva rotto da qualche singhiozzo o qualche parola sussurrata in croato.
Appariva evidente come tutto l’amore e la solidarietà portata da don Ermanno e dal gruppo di Frosinone negli anni addietro, avesse  lasciato un segno profondo ed il seme dell’amore cominciava a dare i suoi frutti.
In una stanza strapiena di persone posta al secondo piano di quello che, in un tempo che sembrava ormai incredibilmente lontano, era stato un albergo di mare e di vacanza, un ragazzo suonava con orgoglio la chitarra ricevuta in dono dall’associazione solo qualche mese prima.
Quelle note riempirono subito la piccola stanza e diffondendosi poi tra i piani dell’intera struttura sembravano sorreggere fisicamente il dono di speranza e di amore di Don Ermanno.
Proseguendo dalla costa in direzione nord est verso la città di Mostar, distrutta nel conflitto balcanico dai combattimenti consumati tra i Bosniaci Musulmani, i Bosniaci Croati di fede  Cattolica  e dai nazionalisti Serbi,  il paesaggio tipicamente Mediterraneo cedeva prima il passo a zone rocciose ed aride salvo poi ridipingersi dei tipici colori collinari grazie alla vegetazione che a tratti attecchiva caparbia sul suolo duro. Altipiani deserti circondati da montagne sempre più verdi preparavano l’arrivo a Mostar, fondata nel XV secolo dai Turchi Ottomani e sviluppatasi attorno al fiume Neretva che nel lento scorrere verso la città finiva per essere inghiottito dalla fitta vegetazione e dalle tipiche case moresche costruite fino alle sue sponde.



Il vecchio ponte simbolo della città era stato raso al suolo e le mura delle case erano tempestate da enormi fori di proiettili, molti dei quali avevano tranciato vite ed i sogni dei sopravvissuti.
In effetti, durante l’ultimo conflitto balcanico Mostar che era abitata in prevalenza da Bosniaci Musulmani, Bosniaci Croati e da una minoranza Serba (così rappresentando un microcosmo etico che rifletteva quello dell’intera Bosnia Erzegovina)  fu bombardata e distrutta per la prima volta nell’aprile del 1992 dall’Esercito Popolare Jugoslavo dopo che la Bosnia Herzegovina si dichiarò indipendente dalla Jugoslavia di Tito.
Dopo il bombardamento le truppe Serbo - Montenegrine, con l’appoggio dell’esercito popolare Jugoslavo (JNA), conquistarono quasi tutta la città bosniaca.



All’assalto Serbo si contrapposero le milizie Bosniache Musulmane e Bosniache Croate che, riunite in un unico scopo, finirono con liberare nuovamente la città e scacciare definitivamente la minoranza Serba.
Nel successivo anno 1993 gli stessi Bosniaci Musulmani e  Bosniaci Croati che avevano liberato Mostar dall’influenza Serba iniziarono una lotta tra di loro per il controllo della città. Nel maggio dello stesso anno i Bosniaci Croati distrussero il quartiere musulmano di epoca medievale e nel successivo novembre distrussero il famosissimo ponte di pietra “Stari Most” del XVI secolo con un colpo di mortaio.
Sia croati che musulmani si macchiarono di efferatezze a danno dell’altra etnia ed entrambi ricorsero all’uso di campi di concentramento.
Solo nel febbraio del 1994 gli eserciti si fermarono lasciando una città divisa tra cattolici e musulmani e solo dal 1996 fu resa nuovamente possibile la libera circolazione da una parte all’altra della città.
Proseguendo in direzione di Kupres che come narrato in “Tempi di Bosnia” era stata teatro di violenti scontri unitamente alla vicina Bugoino, ciò a causa del loro alto valore strategico che aveva portato i Serbi a feroci incursioni che avevano “… costretto la popolazione per lo più croato - cattolica e musulmana ad abbandonare le proprie abitazioni”.
Dopo aver percorso chilometri tra dolci  alture e verdi foreste la mente cominciava timidamente a lasciarsi rapire da tanta quiete che però veniva brutalmente interrotta dalla vista di villaggi fantasma che apparivano interamente distrutti.




Anche a Kupres la prima vista della città riportava subito all’attenzione della mente cosa era accaduto pochi anni prima.
Una chiesa completamente distrutta dai bombardamenti era la testimonianza visiva più marcata che ci si potesse attendere valicando l’accesso alla cittadina.



Ma fu forse a Kupres più che in ogni altro luogo ad allora incontrato che l’affetto straripante riservato all’arrivo di don Ermanno si tinse dei colori più vivaci.
Dopo che evidentemente la notizia dell’atteso ritorno si era diffusa tra i residenti, decine di bambini festanti, da soli o accompagnati dalle loro madri, correvano verso quel giovane uomo che venuto dalla lontana Italia li aveva già accompagnati, nel corso degli anni, dai campi profughi fin alle loro case o accuditi quando le loro dimore erano ancora devastate dalla furia dell’odio cieco che solo la guerra può elevare a flagello terreno.
In particolare in molti ricordavano con immensa gioia il campo di animazione organizzato proprio dall’associazione “Insieme per gli Altri” nel 1997.
Le case venivano letteralmente aperte al giovane don Ermanno al quale veniva offerto tutto quanto potesse essere condiviso anche in un tempo di enorme ed evidente difficoltà economica.
Perciò non fu facile riuscire ad accontentare ogni richiesta di accoglienza e difficilissimo si manifestò doverne declinare tante, dati i serrati tempi che la fitta tabella di marcia imponeva.
Chi sapeva che per ovvie ragioni di tempo non avrebbe potuto ospitare don Ermanno presso la propria abitazione, lo raggiungeva dove era ancora intento in saluti, abbracci ed intensi scambi di ricordi.
La gratitudine, la riconoscenza e l’affetto dilagavano ed il senso di commozione sembrava non abbandonare neanche per un istante le giornate trascorse nella terra di Bosnia, dove gli orrori della guerra erano ancora visibili più nei racconti e negli occhi dei sopravvissuti che nelle tonnellate di macerie sparse in ogni dove.


Dicembre 1999 : Gornja Bistra !

Nell’inverno dello stesso anno, tra il 16 ed il 23 dicembre 1999, alcuni volontari appartenenti all’Associazione “Insieme per gli Altri” furono guidati da don Ermanno per la prima missione di lavoro e condivisione presso l’ospedale pediatrico di Gornja Bistra distante pochi chilometri da Zagabria. La struttura ospitava quasi un centinaio di anime, soprattutto neonati, bambini ed adolescenti, colpiti dalle più gravi patologie genetiche ed abbandonati alle cure di personale impegnato in numero assolutamente insufficiente rispetto all’enorme e delicatissima mole di lavoro utile alla cura dei minimi e delicatissimi bisogni dei piccoli ospiti.
Da Caiazzo (CE) Peppe Fiore e Giovanni Mastroianni, a bordo di un vecchio minibus messo a disposizione per l’occorrenza da una ditta di pulizie industriali campana, carico di aiuti umanitari e piccoli regali fino all’inverosimile, si unirono al gruppo in partenza da Frosinone.
Il viaggio lungo ed estenuante, fu rallentato dall’abbondante neve che aveva segnato un tragitto di circa millecento chilometri percorso in diciotto ore da una vera e propria carovana umanitaria  formata da tre minibus carichi di aiuti umanitari e un autobus con circa venti volontari. Il gruppo dell’associazione “Insieme per gli Altri” giunse così in piena notte alle porte di quella che appariva una tipica villa settecentesca russa decaduta, incastrata in una cornice di neve che ne alterava la sagoma.
La struttura decadente, a tratti fatiscente, sembrava un tutt’uno con il freddo glaciale che attanagliava il cielo e la terra di quel piccolo angolo di mondo.
In particolare la neve abbondante sembrava aver coperto l’ospedale di Gornja Bistra in un abbraccio perenne come a volere tener lontano tutti quelli che avessero voluto aprire il portone di ingresso e portare un po’ di luce, di speranza e di gioia.
Forse così sarà accaduto per anni, fin quando don Ermanno non valicò quella soglia.





Da quel momento, chi sembrava essere stato destinato solo alla sofferenza e all’oblio, incominciava ad assaporare l’amore incondizionato, totale e costante del giovane sacerdote e dei suoi volontari che, dapprima sconcertati da quanto loro visto, vennero poi totalmente rapiti dall’esperienza più tenera e sconvolgente che avrebbero potuto  immaginare.




E fu così che quei teneri esserini desiderosi solo di gesti d’affetto, per anni incastonati in un gelo di dimenticanza, incontrarono il calore portato da don Ermanno. Da quel momento per i “piccoli fiori ghiacciati di Zagabria” ebbe inizio una lunga primavera di affetto.




Questa esperienza fu fondamentale e si rivelò essere poi la colonna portante nella nascita e nella consolidazione della “Fondazione Internazionale il Giardino delle Rose Blu” voluta sempre da don Ermanno per convogliare gli sforzi esponenziali di tanti giovani che si avvicinavano al giovane sacerdote di Frosinone.




I volontari di don Ermanno, poco più di venti, si suddivisero in piccole squadre di cinque - sei componenti che a rotazione provvedevano a piccoli lavori di manutenzione e ristrutturazione ed alla cura dei bambini, per lo più portati fuori dai loro giacigli dove per troppo tempo erano stati costretti a trascorrere intere giornate quasi  tutte uguali e così poterono essere riportati all’allegria con giochi improvvisati.








Da quell’esperienza sarebbero poi stati organizzati fin dal successivo dicembre 2000 – gennaio 2001 i futuri campi di lavoro e condivisione in Gornja Bistra che portarono alla ristrutturazione e modernizzazione non solo dell’immobile, ma anche di tutta l’organizzazione lavorativa e gestionale.







I futuri campi di lavoro e condivisione di Gornja Bistra e di nuovo la Bosnia

Dopo il primo incontro con la realtà di Gornja Bistra , ossia dopo circa un anno, nel periodo 17 – 23 Dicembre 2000 proprio presso l’ospedale pediatrico fu organizzato in modo più organico e sistematico un nuovo campo di lavoro e condivisione.



Forti della prima esperienza maturata circa un anno prima, nonché dei successivi contatti istituzionali ed informali, sopralluoghi intermedi e fitta collaborazione con l’Ambasciata italiana in Croatia, sia i volontari che avevano partecipato alla prima esperienza che nuovi aggregati, ebbero la possibilità di cimentarsi in quella rinnovata esperienza di amore e condivisione unica che si sarebbe ancora ripetuta nel tempo futuro arricchendosi sempre di nuovi spunti di concreta humanitas.




Oltre a don Ermanno ed ai volontari di Frosinone questa volta da Caiazzo giunsero a Gornja Bistra oltre a Giovanni Mastroianni - alla sua seconda e consecutiva esperienza presso l’ospedale pediatrico -  anche nuovi volontari come Nunzia Silvestro (che sarebbe diventata attivissima in seno alla “Fondazione il Giardino delle Rose Blu”) e le dolcissime sorelle Anna ed Antonella Mastrocinque mentre da Napoli giunsero Andrea Torino ed Antimo Cappuccio anche loro di lì in poi particolarmente attivi per la Fondazione nel capoluogo partenopeo.



Dopo mesi di lavoro, oggi, grazie all’impegno di don Ermanno e di tutti i volontari che si sono avvicendati e che si avvicendano presso l’ospedale pediatrico di Gornja Bistra, ormai interamente ristrutturato, si accinge ad essere ulteriormente ampliato e modernizzato; sono stati applicati innovativi protocolli di riabilitazione psico motoria basati sulla partecipazione emozionale, ideati da don Ermanno (intanto affermatosi a livello accademico come psicologo e psicoterapeuta anche grazie ai suoi studi di ricercatore e collaboratore universitario) e dal suo staff tecnico, formato prevalentemente da psicologi e psicoterapeuti; viene garantita una presenza di volontari permanente che nell’appuntamento annuale della  tendopoli estiva, estesa di recente anche a interi nuclei familiari, raggiunge la massima forma di gioiosa condivisione e vede la partecipazione di decine e decine di volontari provenienti ormai da tutto il mondo.





Chiunque valicherà la soglia dell’ospedale di Gornja Bistra avrà immediatamente chiara la missione di cui è stato investito don Ermanno d’Onofrio e, nel far parte di un progetto più grande di quello in itinere, scoprirà davvero il senso superiore delle cose e della vita, ma soprattutto capirà nel profondo il significato dell’esortazione ad “Amare Dio Amore”.


2008 Nuove prospettive di Bosnia: Sarajevo, Cerska, Sebrenica

Dopo tanti campi di lavoro e condivisione tenutisi presso l’ospedale di Gornja Bistra, la tendopoli estiva e tutte le attività correlate che nel corso dei vari anni hanno visto lì cimentarsi centinaia di volontari ormai provenienti da ogni parte del mondo, nel gennaio dell’anno 2008 don Ermanno conduce storici volontari, tra cui Antonio Di Tomassi, Giovanni Mastroianni, Pietro Signeri,   Nunzia Silvestro e Dora Stankovich nei luoghi di Bosnia dove già si era recato anni prima unitamente ad associazioni umanitarie durante gli ultimi mesi del conflitto balcanico
Invero, la possibilità di estendere il raggio di azione della “Fondazione Internazionale Il Giardino delle Rose Blu”  ( che dall’esperienza di Gornja Bistra ha preso il nome e che per necessarie ragioni logistiche e burocratiche si è sostituita all’organizzazione di “Insieme per gli Altri”) dalla Croatia alla Bosnia è stata resa possibile soprattutto grazie al lavoro costante di tanti collaboratori che quotidianamente l’amministrano dalla sede di viale Europa n. 44 in Frosinone, tra cui spicca per la decennale dedizione e professionalità Alessandra Testani.
La nuova prospettiva era quella di sviluppare anche in Bosnia, questa volta anche lì in modo continuativo ed organizzato, una struttura operativa della Fondazione simile a quella ormai consolidata in Croatia e che aveva avuto il suo fulcro in Gornja Bistra.
Fu così che giunti a Sarajevo con quattro minibus per il trasporto di volontari ed aiuti umanitari partiti da Frosinone a cui se ne aggiunsero altri tre provenienti dalle regioni del Nord Italia, dopo quasi ventiquattro ore di viaggio ed oltre millecinquecento chilometri di viaggio trascorsi quasi tutti sotto abbondanti nevicate e su strade rese quasi impraticabili dal  ghiaccio e dalla neve, i volontari finalmente alloggiarono stremati nella struttura chiamata “sprofondo” , deputata proprio alla ricezione ed accoglienza di gruppi di volontari e pellegrini che giungevano nella capitale bosniaca.



Anche le lunghe soste alla dogana a cui furono costretti (come sempre) i volontari sembrarono interminabili, forse più estenuanti del viaggio stesso.



Sarajevo appariva come si era sempre vista nelle immagini televisive: grigia, immersa in un freddo intimo che sembrava poter far da cornice perenne alla città  e che avvolgeva i quartieri del centro più moderno, disegnati in perfetto stile comunista, da cui emergevano a tratti tante moschee ed altissimi palazzi direzionali dove i cecchini in tempo di guerra trucidavano abitanti inermi mentre erano in procinto di andare a fare la spesa per garantire la minima sopravvivenza dei loro familiari.
Come avremmo avuto modo di conoscere dai racconti dei sopravvissuti, piccoli bimbi avevano salutato per l’ultima volta le loro madri il cui unico peccato era stato quello di andare a comprare il pane o un po’ di frutta.
Mogli e fidanzate avevano visto morire i loro compagni mentre scappavano sotto il tiro dei cecchini o dei militari che tentavano di rivendicare la  propria fede con pretesti etnici e religiosi  che nulla avevano a che fare con Dio. Tutto ciò  accadde in una città dove non molti anni prima Cattolici, Ortodossi e Musulmani avevano convissuto rispettando le loro differenze, così come magistralmente rappresentato dalla penna attenta e profonda di Ivo Andric (premio nobel per la letteratura) che forse più di tutti è riuscito a cogliere l’essenza della questione bosniaca spingendosi fin alle sue radici.
L’orrido superò la più squallida forma di ogni immaginazione quando un sopravvissuto ci ricordò che tra i cecchini appollaiati come avvoltoi, o meglio,  nascosti come topi su quelle torri di odio, si erano tragicamente distinti molti volontari occidentali che avrebbero addirittura pagato ingenti somme di denaro pur di assicurarsi una macabra esperienza nel safari umano di Sarajevo.
Le tracce della guerra erano ancora più tangibili a pochi chilometri dalla periferia cittadina dove apparivano segni di devastante crudeltà consumati nelle zone rurali.




Anche il fronte di colline che si affacciavano su Sarajevo, un tempo zona residenziale esclusiva, era stato tramutato dalla logica bellica in una perfetta zona di tiro ed anche da lì la morte corse veloce fondendosi con i proiettili dell’artiglieria.
Eppure scivolando tra le vie di Sarajevo iniziavano a cogliersi i segni di quotidiana spontaneità che mai ci si poteva immaginare di incontrare dopo tanta sofferenza. In particolare tra le stradine, i piccoli negozi ed i punti di ristoro della zona medioevale prettamente musulmana, si sprigionava un tipico calore mediterraneo che faceva da traino ad una promessa di serenità.
Da Sarajevo fu raggiunto l’ospedale psichiatrico di Drin dove molti uomini avevano trovato un rifugio dal profondo disagio che la guerra, con i suoi incubi materializzati, aveva conficcato loro nel cuore e nel cervello.
Nei giorni che seguirono fu la volta di Cerska, luogo desolato della Bosnia centrale dove foreste di alberi gracchiati che sembravano spuntare direttamente dalla roccia nuda, annunciavano la miseria e la povertà che lì albergava.
Piccole baracche  di cemento ospitavano varie famiglie soprattutto di etnia Rom, costrette a vivere per mesi con una temperatura esterna che spesso oltrepassava la soglie di dieci gradi sotto zero. Le precarie dimore erano riscaldate alla meglio da piccole e malandate stufe a kerosene o elettriche e munite di servizi igienici di fortuna all’esterno. Spesso in quelle povere abitazioni ci si imbatteva in occupanti adulti che avevano subito mutilazioni accidentali avendo urtato mine anti uomo ancora attive in tantissimi territori della Bosnia.



Il giorno dell’Epifania del 2008, organizzati in una piccola scuola di Cerska divenuta punto di riferimento logistico, i volontari di don Ermanno vinsero la diffidenza dei molti Rom che lì erano giunti dopo aver percorso anche chilometri a piedi sotto la neve  e poterono così condividere con loro attimi di gioia attraverso canti e balli ed infine procedere alla distribuzione di doni giunti dall’Italia.





Vedere donne e bambini caricare sulle spalle quanto ricevuto per poi affrontare tanta strada a piedi in condizioni meteo proibitive per tornare alle loro dimore, faceva comprendere di quanto aiuto avessero bisogno.
Cerska lasciò una ricordo indelebile nella memoria dei volontari mentre nel cuore di don Ermanno la promessa di un presto ritorno già si radicava feconda di nuove idee per i prossimi interventi.




Quasi giunti alla termine di quell’indimenticabile viaggio di amore solidarietà, toccava raggiungere la lontana Sebrenica, teatro non solo di feroci battaglie tra le varie etnie ma tristemente nota al mondo intero soprattutto per gli atti di pulizia etnica che l’esercito filo Serbo aveva compiuto in danno alla  comunità Musulmana.
Dopo aver incontrato la popolazione ancora sotto shock per tali accadimenti consumati solo qualche anno prima, i volontari raggiunsero il cimitero costruito proprio per commemorare le vittime di tale   atrocità.
Fu lì che l’eco di tanto orrore sembrò materializzarsi. Una distesa enorme di lapidi bianche verticali, piccole torri grandi poco più di un metro, attestavano che oltre seimila musulmani erano stati lì sepolti dopo essere stati trucidati per mano dei Serbi e gettati in fosse comuni. Al proseguire delle ricerche il numero delle vittime sarebbe poi cresciuto fino a raggiungere quasi diecimila tra uomini, donne e bambini trucidati senza pietà.






L’esperienza di quei  giorni trascorsi tra Sarajevo, Drin., Cerska e Sebrenica fu talmente coinvolgente che durante il  viaggio di rientro in Italia, dall’interno del suo mini bus,  l’amore senza confini di don Ermanno lo portava  già a pianificare  le future missioni che avrebbero trovato il loro nuovo fulcro bosniaco proprio in Cerska.
Ad oggi, a distanza di pochi anni, l’avvicendarsi sia dei campi di lavoro e condivisione a Cerska sil il consolidarsi di insediamenti sempre più stabili a Mostar e Medjugorie, testimoniano la presenza sempre più fitta della “Fondazione Internazionale il Giardino delle Rose Blu” anche in terra di Bosnia.



  

I prossimi capitoli di questa straordinaria e coinvolgente avventura umana e spirituale che in don Ermanno trova un motore infaticabile, potranno essere scritte anche con l’aiuto di chi legge.
Non esitate a dare una svolta ed a capire il senso profondo della vostra vita e visitate il sito

oppure contattate via e mail l’associazione Humanitas Italia all’indirizzo di posta elettronica
humanitasitalia@gmail.com


















 Piccoli fiori ghiacciati
sotto la spessa neve di Zagabria
le braccia distese lungo il corpo,
come foglie lungo uno stelo troppo fragile
ma muto nei confronti del dolore
piccoli fiori ghiacciati.
Non c’e’ più colore sui petali delle gote
brinati dai fiocchi della  neve di Zagabria,
ma, ora, le vostre mani scavano quella neve
sciolgono il ghiaccio che blocca i sorrisi,
le catene dell’indifferenza.
Le vostre mani cingono i piccoli fiori
danno loro nuova vita e colori nuovi
il sole pallido torna ad accarezzare i petali
che adesso vivono … vivono!
I piccoli fiori rinati
ora cercano quelle mani così calde,
così accoglienti …
E tutte per loro … solo per loro
i piccoli fiori ora sorridono, sorridono
di nuovo



Zagabria, inverno  1999 - 2000, testimonianza di una Volontaria